L’Italia, soprattutto negli anni del boom edilizio, i mitici anni ’70, è stata teatro di demolizioni sistematiche, spesso clamorose, di edifici che potremmo definire “storici”, in quanto appartenenti ad un’epoca in cui si costruiva in un altro modo, con tecniche costruttive che oggi si sono in parte perse, con materiali ritenuti da superare con l’avvento del cemento armato.
È questo il caso dei quartieri più vecchi della mia città, Bari, come il quartiere Murat, nato più di 200 anni fa: era il 25 aprile 1813, infatti, quando Gioacchino Murat, re di Napoli, pose la prima pietra di quello che sarebbe diventato il Borgo Nuovo, appena fuori dalle mura della città vecchia. Tra la fine del 1800 e del 1900 si è poi sviluppata la cosiddetta “zona umbertina” con i suoi prestigiosi palazzi fronte mare e a seguire i densi quartieri popolari Madonnella e Libertà, rispettivamente ad est e ad ovest del murattiano. Come è sempre accaduto nel corso della storia chi aveva più soldi ha costruito palazzi di pregio, dalla facciate prima neoclassiche, poi liberty, art nouveau, poi razionaliste, curate in ogni dettaglio, con l’aiuto delle maestranze e degli artigiani migliori, con i materiali più costosi, realizzando anche interni di pregio. Chi aveva meno soldi ci ha provato, seguendo lo stile in voga in quel momento storico.
Molti di questi edifici oggi non esistono più, sono stati demoliti per far posto a condomini pluripiano, in cemento armato o acciaio, alcuni mirabilmente progettati, come quelli di Chiaia e Napolitano, che hanno operato a Bari a partire dal 1954 – li chiamavano “gli Americani di Bari” quasi a denotare l’innovatività delle loro costruzioni – altri così brutti e sgraziati da farci rimpiangere gli edifici preesistenti.
Ebbene, alcune demolizioni sono state davvero scellerate: ad esempio quelle dei villini postelegrafonici del quartiere Carrassi, dei quali sono rimasti solo pochissimi esempi, oppure l’interramento del diurno in Corso Vittorio Emanuele, avvenuto molti anni più tardi. Ma la più nota è sicuramente quella del palazzo della Gazzetta del Mezzogiorno, un edificio Liberty estremamente maestoso, che dominava piazza Roma, oggi piazza Aldo Moro: fu demolito in una sola notte dell’agosto 1982. Furono salvati solo i telamoni inginocchiati che reggevano le colonne del portone di ingresso, oggi esposti nell’androne del comune. Al suo posto fu costruito un anonimo palazzo dalle facciate vetrate, che oggi accoglie nell’anonimato i visitatori in arrivo a Bari con il treno.
Questi, gli scenari – certo deprecabili – del passato. La frenesia del boom economico delle costruzioni, la smania di espansione della città, registrata nel disegno di tutti i piani urbanistici che a partire dagli anni ’70 hanno sovradimensionato le città, disegnando infrastrutture di improbabile realizzazione e zone di espansione, la cui costruzione sarebbe stata possibile solo con una crescita demografica costante, hanno guidato le azioni di chi spesso ha pensato al proprio tornaconto economico, piuttosto che a salvaguardare edifici di enorme valore testimoniale ed architettonico
Oggi, invece, la tendenza si è invertita. La paura di commettere gli stessi errori del passato ha nutrito negli ultimi dieci anni la corrente che io definisco “dell’iper-tutela“. Di fronte all’impossibilità da parte delle Soprintendenze di vincolare tutti i manufatti “storici” e alla necessità da parte di queste di distinguere – giustamente – ciò che è più meritevole di tutela tanto da “meritare” un decreto di vincolo diretto, si sono diffuse altre tipologie di vincolo. Ad esempio la ricognizione delle aree di notevole interesse pubblico, da realizzarsi ai sensi della parte II del Codice dei Beni Culturali, quella dedicata al paesaggio, che per effetto dell’art. 136 consente di dichiarare sottoposti a tutela “i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici” laddove per nucleo storico non è specificato cosa si intenda, atteso che la storia è composta da varie epoche, che inevitabilmente si sovrappongono nella città, che per sua stessa definizione è un organismo in continuo mutamento ed evoluzione.
A Bari ci hanno provato nel 2012, ma l’iter per dichiarazione di interesse pubblico non si è concluso nei tempi dovuti e il vincolo è decaduto.
Per evitare che andassero distrutti anche edifici non vincolati, il comune di Bari, come molti altri comuni, è ricorso ad uno studio particolareggiato, che attraverso delle schede di valutazione ha individuato i cosiddetti “fronti non sostituibili” a causa della loro “alta qualità”. Questo di fatto è un vincolo che il comune ha apposto sulle facciate, provvedendo contemporaneamente a modificare le Norme Tecniche di Attuazione, restringendo il campo degli interventi edilizi possibili per questo tipo di immobili, al restauro e alla ristrutturazione edilizia. Qualora gli edifici siano ammalorati tanto da non poter intervenire con un restauro, è possibile demolire il loro interno, lasciando inalterate le facciate.
Su questa nuova tipologia di vincolo ci sono certamente alcune considerazioni da fare e che naturalmente non vi risparmierò.
Dei criteri di valutazione
Lo studio particolareggiato dovrebbe essere approfondito e fondarsi su criteri inattaccabili: va bene inserire degli indicatori cui assegnare dei punteggi, ma chi decide qual è il minimo punteggio per dichiarare un immobile non sostituibile? Purtroppo non è sufficiente che un immobile sia antico perché abbia valore, altrimenti tutti gli immobili antichi sarebbero vincolati ope legis dalla Soprintendenza. Come ho detto all’inizio dell’articolo, anche in passato c’era chi costruiva con tufo scadente, chi non realizzava le modanature a regola d’arte, chi finiva i soldi e lasciava dei piani incompiuti. Chi ci provava, insomma, ma poi non ci riusciva. C’era chi passava dalla commissione d’ornato con un disegno che veniva approvato ed in corso d’opera disatteso. Inoltre gli indicatori non possono non tener conto dello stato di conservazione dell’immobile, non possono non considerare che tutti gli edifici hanno un ciclo di vita, variabile, che dipende moltissimo dalla frequenza e costanza della manutenzione, dagli interventi che l’immobile ha dovuto subire nel corso degli anni, dal fatto che questi fossero o meno adeguati, se abbiano o meno pregiudicato irreversibilmente l’estetica, la statica, la funzionalità dell’immobile stesso.
Della conservazione delle facciate
Da quello che si evince il cosiddetto “svuotamento” è considerato l’ultima ratio. Come a dire: se proprio non puoi farne a meno demolisci l’interno ma non privare la città di queste splendide facciate. Ammesso che queste facciate abbiano effettivamente un carattere di unicità, costituiscano un valore testimoniale imprescindibile, che secondo i criteri del restauro, si antepone a tutti gli altri valori, rendendo necessario il recupero, lo svuotamento sarebbe comunque una operazione complessa ed in ogni caso, a mio avviso, incoerente. In primo luogo tenere in piedi le facciate di un edificio non è semplice: sono spesso necessari ingenti interventi di miglioramento sismico, di consolidamento delle strutture, di integrazione di sistemi costruttivi differenti. Questo ha naturalmente costi di progettazione e realizzazione elevati. Inoltre, il risultato finale, ammesso che sia possibile, non consente di ottenere un prodotto organico, di fatto producendo un falso storico. Mi chiedo e chiedo a voi: che valore può mai avere un immobile che da fuori sembra un palazzo ottocentesco in pietra portante e da dentro risulta un immobile in cemento armato con fattezze e rifiniture contemporanee? Questa operazione, come tutte le falsificazioni, in architettura non funziona, è evidente. Qualsiasi teorico del restauro la ricuserebbe nettamente, considerando che va contro ogni principio applicato ed applicabile nel restauro, nel quale la prima regola è sempre quella della riconoscibilità degli interventi, della verità delle soluzioni.
Della fattibilità economica
Viviamo nel mondo reale. Non tutti coloro che diventano proprietari di un immobile “storico” hanno le risorse economiche per provvedere a ingenti restauri, che – diciamo la verità – sarebbero la migliore soluzione per valorizzare gli immobili antichi, qualora questi non versino già in condizioni disperate. La progettazione costa, le imprese esperte in restauro sono mediamente più care di quelle che si occupano di costruzioni generiche, lavorando chiaramente in maniera più accurata, i materiali da impiegare costano di più. In genere, quando un privato diventa proprietario di un immobile antico, che non ha i soldi per restaurare, si aprono due possibili scenari: 1) il proprietario cerca una impresa che voglia fare una permuta: demolire l’edificio per ricostruirlo, ricavandone più appartamenti a parità di volume, da vendere. In genere il proprietario ci guadagna uno o due appartamenti e il costruttore vende gli altri, ricavando il proprio profitto. 2) se la prima opzione non è possibile il privato continua a pagare l’IMU sull’immobile per non poterlo utilizzare, non avendo il denaro necessario per metterlo a posto, e lo guarda disfarsi nel tempo, fino a diventare un rudere, un ricettacolo di rifiuti e guano di uccelli. In più gli resta sulle spalle la responsabilità di questa zavorra, che potrebbe crollare in ogni momento, mettendo a rischio l’incolumità dei passanti. Viene sottoposto periodicamente a ordinanze e diffide da parte del comune che lo obbligano a chiamare una impresa (altri soldi) per spicconare gli intonaci, le cornici e i frontalini dei balconi in distacco, affinché non cadano rovinosamente su qualche sventurato. Viene sottoposto periodicamente a ordinanze del comune che lo obbligano a chiamare una impresa di pulizie (ancora soldi) per ripulire l’immobile dal guano e dai topi, che potrebbero causare un’emergenza sanitaria e portare malattie ai confinanti. Vi chiedo: il privato che non possiede le risorse per restaurare ha forse alternative alla demolizione se le imprese non sono interessate al recupero di immobili che di fatto non hanno un ampio mercato di vendita? La risposta appare scontata, considerando oltretutto che non esistono fondi o contributi economici di alcun tipo per il restauro degli immobili antichi. Eppure spesso viene additato come un demolitore, assassino della storia recente.
Del bilanciamento degli interessi coinvolti
La Pubblica Amministrazione, che agisce secondo i dettati del diritto amministrativo, ha come principio di base della propria azione il bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nel procedimento, che in questo caso sono l’interesse pubblico (conservare un edificio che abbia un valore testimoniale per la comunità e tramandarlo alle future generazioni) e l’interesse privato (godere della proprietà privata e, qualora possibile, trarne qualche vantaggio). Dunque, se è vero che l’interesse pubblico ha spesso valore prevalente rispetto all’interesse privato, è anche vero che l’interesse privato non può essere costantemente danneggiato, con il risultato, peraltro, che l’obiettivo auspicato ovvero la conservazione del bene immobile, non viene comunque raggiunto, atteso che, ci vorrà qualche anno in più, ma l’edificio crollerà comunque, non prima di aver fatto ulteriori danni. Capite da voi quindi, che il problema non è risolto con l’iper-tutela, anzi, è più che mai aperto.
Dell’incertezza del diritto
Oggi, più che mai, non esiste la certezza di poter esercitare un diritto, soprattutto se come abbiamo chiarito, esistono vari interessi coinvolti. Tuttavia è opportuno che esistano dei limiti; è di qualche giorno fa la notizia, apparsa sulla Gazzetta del Mezzogiorno, relativa al blocco da parte della Soprintendenza, dell’operazione di demolizione e ricostruzione di un immobile, privo di qualsiasi vincolo, anche quello relativo alle facciate, per il quale era stato rilasciato regolare permesso di costruire. Il blocco dei lavori è avvenuto dietro denuncia. Il permesso di costruire era stato rilasciato nel 2017 e affisso all’albo pretorio online del comune e ad agosto 2018 erano iniziati i lavori. Fino a gennaio 2019 niente/nessuno ha avuto nulla da dire, poi, a demolizione già avvenuta di un livello, di un edificio peraltro in pessime condizioni e di alcun pregio, è scattata la denuncia. Non voglio entrare in polemica con chi ha rilasciato dichiarazioni alla stampa e alla tv in merito, ma ritengo che tutto questo sia profondamente ingiusto nei confronti di chi ha impiegato tempo, risorse, energie, di chi ha investito speranze e fatto progetti, di chi ha legittimamente ottenuto un provvedimento a proprio favore, espresso da una pubblica amministrazione, con un numero e una data, per vedere tutto svanire da un giorno all’altro, senza che vi fosse una reale ragione ostativa, se non una inutile crociata per la salvaguardia di una storia che non ha questi edifici come propri migliori testimoni. Il risultato di tutto questo sarà una nuova causa, in cui, guarda un po’, altre risorse saranno impiegate, probabilmente per produrre il vincolo di un rudere in parte già demolito.
Il ruolo dei professionisti tecnici
Il nostro dovere di addetti del settore, sia come dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, che come liberi professionisti, è quello di proporre delle soluzioni creative a questo problema. Non possiamo più evitare di affrontarlo, perché le nostre città pullulano di edifici che vengono lasciati all’incuria ed il cui stato di progressivo abbandono non è utile a nessuno. Come al solito, in architettura ed urbanistica, la verità assoluta, lo schema applicabile in tutti i casi non esiste. Esiste il progetto, esiste l’apertura mentale a considerare caso per caso quali soluzioni è possibile adottare, per non privare i proprietari del godimento del proprio diritto ed al contempo per non adottare soluzioni scellerate, che producano mostri senza senso o demolizioni di cui poi ci pentiremo.
Certo, qualcuno sarà sempre scontento, ma questo approccio consentirebbe di evitare gran parte dei contenziosi tra P.A. e privati, pervenendo a una soluzione che permetta di incontrarsi a metà strada. Una commissione di valutazione formata da professionisti del settore e da funzionari della pubblica amministrazione? Studi tipologici approfonditi che consentano realmente di comprendere il valore testimoniale di un immobile? Studi di fattibilità che il comune possa approvare prima della presentazione del vero e proprio progetto? Il coinvolgimento della Soprintendenza nei tavoli tecnici? Queste sono solo alcune proposte, ma possono essercene molte altre, il primo passo è giungere alla consapevolezza che le soluzioni finora adottate sono fallimentari su tutta la linea.
Ne trarrebbero giovamento, sicuramente, le nostre città.
Questo è un argomento che mi sta particolarmente a cuore, sono anni che ne parlo e ne discuto, sono stata da entrambe le parti della barricata, era da tempo che volevo scriverne e gli ultimi avvenimenti mi hanno spinto con più forza a farlo, perciò vi chiedo di commentare e confrontarci, raccontando le vostre esperienze e le vostre idee e proposte al riguardo.