Erano otto anni che mancavo dalla Biennale di Architettura di Venezia.
Forse anche per questo ho apprezzato moltissimo gli spunti di riflessione offerti da questa edizione della mostra, curata da Yvonne Farrell e Shelley McNamara (non una, ma ben due donne architetto!), il cui tema centrale è “FreeSpace”.
Come è mia abitudine prima di visitare la mostra ho letto poco e niente al riguardo, in modo da non essere in alcun modo influenzata e da potermi così fare una idea scevra da pregiudizi.
Raccontare il pensiero di ognuno dei partecipanti alla mostra sarebbe troppo lungo e sicuramente non è l’obiettivo di questo post, che vuole solo fornire alcuni spunti di riflessione in base alla mia personale esperienza di questa Biennale 2018, soprattutto perché con l’attività professionale frenetica che oggi gli architetti conducono è sempre più difficile che ci siano occasioni di critica e riflessione seria, che possano costituire un momento in cui l’animo si eleva e trova nuovo respiro e nuovi spunti per riportare l’attenzione sul progetto e sulla sua dignità.
Ho cominciato la mia visita partendo dall’Arsenale, cercando di pensare al concetto di free space in architettura. Spazio Libero.
Mi viene immediatamente in mente lo spazio pubblico: quello che troppo spesso oggi non è più libero, nè dimensionalmente parlando, perchè occupato da troppi edifici e macchine, risultando di fatto uno spazio residuale, nè tantomeno ideologicamente, perchè spesso non offre al fruitore la libertà di viverlo come preferirebbe, perlopiù a causa della concezione errata dello spazio e del suo progressivo degrado.
E perciò ho pensato che free space dovrebbe piuttosto diventare un imperativo, soprattutto in alcuni quartieri delle nostre città: “free the space! liberate lo spazio!” verrebbe da dire camminando attraverso i vicoli del Libertà o di San Pasquale a Bari, ad esempio, cercando di rispondere a un desiderio ormai sopito dei suoi abitanti: l’architettura in fondo dovrebbe fare proprio questo “rivolgersi ai desideri inespressi dell’estraneo” come dicono Farrell e McNamara nella sinossi della mostra.
Free Space non può però essere solo spazio pubblico: deve essere anche la capacità dell’architetto di creare degli spazi abitativi in cui sentirsi liberi, in cui sentirsi a casa. Questo è il concetto utilizzato da Alison Brooks, di origine canadese, architetto tra i 30 più influenti a Londra, che ha creato l’installazione ReCasting, credendo fortemente nello spazio abitativo come “un’infrastruttura civile che attiva il potenziale umano”: l’obiettivo è quello di creare con il legno spazi unificanti che offrono a chi ne usufruisce momenti di bellezza, utili a migliorare la qualità della propria vita.
Liberare lo spazio a volte però significa anche “coltivare l’imperfezione” attraverso l’uso di tecniche costruttive antiche e tipiche del luogo, che consentono di recuperare il vero senso con l’architettura, dell’atto primitivo del costruire, non più imbrigliato dai lacci della modernità a tutti i costi. Questo è il pensiero di Sandra Barclay e Jean-Pierre Crousse, peruviani, con studio a Lima e a Parigi. Lei quest’anno ha vinto il Woman Architect of the Year Award 2018, premio assegnato dalle testate britanniche The Architectural Review e The Architects’ Journal con il progetto del museo archeologico di Paracas. La loro proposta per la biennale si intitola “The Presence of the Absence” e vuole porre l’accento sull’importanza dell’essenzialità e dell’attenzione ai luoghi, ai paesaggi, in cui le architetture si inseriscono.
Una delle installazioni più d’impatto di questa Biennale è senz’altro a mio parere quella creata da Benedetta Tagliabue dello studio catalano Miralles Tagliabue EMBT, intitolata Weaving Architecture, ispirata al volo libero degli uccelli e al contempo ai motivi decorativi e alla tradizione africana: l’obiettivo è quello di creare, attraverso delle trame in canapa, uno spazio semiaperto, un ombreggiamento che accompagna il percorso e la sosta, essendo stato concepito per il restyling di una stazione della metropolitana alla periferia di Parigi, un luogo-non-luogo, che gli architetti hanno deciso di declinare partendo dalla volontà di costruire (anzi, di intessere) un senso di inclusione sociale e di condivisione di uno spazio accogliente.
L’installazione curata dagli architetti di ELEMENTAL (Alejandro Aravena, Gonzalo Arteaga, Juan Cerda, Diego Torres e Victor Oddo) merita una riflessione. Il titolo dice tutto: “Free Space: The Value of What’s Not Built”. Il valore di ciò che non è costruito. Aravena non è nuovo a queste provocazioni, che si inseriscono nel più ampio principio su cui si basa tutta la sua attività di architetto: la necessità di costruire dei sistemi architettonici aperti che consentano agli abitanti di intervenire nel processo di trasformazione degli spazi, adattandoli alle proprie abitudini e ai propri bisogni. In quest’ottica Free Space diventa un vero e proprio comandamento: lasciare liberi gli spazi in modo che la gente se ne riappropri e li utilizzi per la propria autoaffermazione e per la costruzione delle proprie relazioni. In particolare Aravena sottolinea che il rapporto tra spazio pubblico e spazio di proprietà privata scende fino ad 1:10 nei paesi in via di sviluppo ed invita ad una riflessione quantomai necessaria, oltre che assai inquietante.
Nel pomeriggio ho girovagato tra i padiglioni delle partecipazioni Nazionali.
Sono stata particolarmente colpita dal padiglione italiano, intitolato Arcipelago Italia e curato da Mario Cucinella, che pone l’accento su quei territori del nostro Paese lontani dai percorsi usuali, dal clamore delle città, che però costituiscono un valore inestimabile, che non può in alcun modo essere perso. Questo viene spiegato chiaramente nel docufilm prodotto dalla Rai e proiettato all’inizio del percorso.
Si tratta di una lettura alternativa del nostro territorio, che troppo spesso è assimilato ad un insieme di grandi aree metropolitane, ma che in realtà è composto da luoghi straordinari da salvaguardare: gli itinerari proposti sono otto, sparsi in tutta Italia. L’esposizione continua poi con l’esito di un lavoro importante e concreto che Cucinella insieme al suo staff ed insieme alle università sta portando avanti: si tratta di cinque progetti prototipo realizzati su alcuni di questi luoghi inusuali, che vengono reimmaginati alla luce dei problemi e delle tematiche contemporanee. I cinque progetti pilota sono estremamente interessanti perchè partendo dalle criticità dei cinque territori analizzati, propongono una strategia progettuale rigenerativa, che passa per delle progettazioni reali e partecipate, come ad esempio la rifunzionalizzazione del teatro incompiuto di Pietro Consagra a Gibellina e la realizzazione di un parco agricolo urbano, mirati alla ri-abitazione di Gibellina Nuova, città progettata sulla carta come un’opera d’arte contemporanea, ma mai riempita di senso sociale ed umano.
Molti dei padiglioni allestiti dalle nazioni mi hanno colpito e fatto riflettere: ad esempio camminando per il Padiglione dell’Albania, intitolato Zero Space, tra porte in legno colorato e fotografie di scene di vita quotidiana scattate a Tirana, appese al soffitto in tintinnanti portafoto che si scontrano piano gli uni con gli altri, mi sono sentita avvolta dallo spirito albanese, ho avvertito la forza di questo popolo e la voglia di riscatto, oggi tangibile se osserviamo la progressiva rinascita delle città albanesi.
Il Padiglione della Spagna somiglia invece ad un gigantesco racconto, spalmato in colori, scritte, disegni, schemi compositivi sulle pareti, sul soffitto, sul pavimento, sullo spessore dei muri. L’esposizione s’intitola Becoming ed in effetti raccoglie le proposte degli studenti di architettura spagnoli, selezionati con un bando, diventando di fatto un gigantesco quaderno di appunti sul futuro dell’architettura spagnola.
Non si può fare a meno di restare affascinati dal padiglione del Perù. Il tema dell’esposizione è Undercover ed il suo fulcro è il rapporto tra la città di Lima e le huacas, antiche costruzioni cadute in disuso, che oggi costituiscono solo “rumore di fondo” all’interno della città di Lima, ma la cui conoscenza è in realtà importante per la costruzione di una forte identità nazionale. Solo a Lima ce ne sono 447, che vengono rappresentate nella mostra da altrettanti nodi di cotone, prodotto tipico del Perù, che le riconnette simbolicamente al luogo cui appartengono: l’auspicio è che le huacas possano diventare una opportunità per il territorio.
Se visitate i giardini non potete sicuramente perdere il rinnovato padiglione del Canada, costruito nel 1957 dallo studio BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers), che dopo il restauro ha riaperto i battenti con una mostra dedicata alla storia del padiglione stesso intitolata Canada Builds/Rebuilds a Pavilion in Venice.
Da ultimo mi sento di consigliarvi, se vi fermate un giorno in più, di prendere il traghetto e di raggiungere l’isola di san Giorgio Maggiore, dove, oltre ad ammirare la bellissima chiesa di san Giorgio del Palladio, potrete visitare l’esposizione della Santa Sede, (per la prima volta alla Biennale) curata da Francesco dal Co, dal titolo Vatican Chapels. L’esposizione si articola nel parco alberato della Fondazione Giorgio Cini sull’isola di san Giorgio, simile ad un boschetto con vista sulla laguna. Partendo dall’archetipo della cappella nel bosco di Gunnar Asplund costruita nel 1920 nel cimitero di Stoccolma e riprodotta all’interno dell’esposizione stessa, il curatore della mostra ha invitato dieci architetti a riflettere sul tema dello spazio sacro, completamente astratto perchè all’interno di un bosco, immaginando altrettante cappelle. Gli architetti, Eduardo Souto De Moura, Francesco Cellini, Javier Corvalàn, Andrew Berman, Norman Foster, Ricardo Flores e Eva Prats, Smiljan Radić, Sean Godsell , Carla Juaçaba, Terunobu Fijimori hanno interpretato lo spazio sacro in maniera libera, sentendosi liberi da vincoli di sorta. In quest’ottica, il percorso tra gli alberi diventa la metafora di un cammino spirituale e allo stesso tempo del peregrinare della vita, spogliandosi del suo senso fisico.
Qui sotto, se siete curiosi e volete un assaggio di quello che vi aspetta, o se per quest’anno non riuscirete a visitare la Biennale, ho caricato un piccolo video che ho girato, che contiene alcune delle cose che vi ho raccontato ed anche qualcosina in più.
Buona visione!
Se anche voi avete visitato la Biennale raccontatemi ciò che vi ha colpito di più di questa edizione!