“L’Architettura moderna ha una vocazione sociale”
L’ha detto Gio Ponti nel suo celeberrimo libro “Amate l’architettura”. Questa frase, letta oggi, sembra accogliere dentro di sé l’urgenza di problemi nuovi e vecchi, che investono le nostre città in mille modi diversi. Primo tra tutti il problema delle periferie, che dopo tanto tempo l’archistar nonchè senatore a vita Renzo Piano ha deciso di “rammendare”, termine quantomai sintomatico della difficoltà di operazioni di risanamento di luoghi mal progettati, che oggi risentono di problemi enormi – soprattutto sul piano sociale – ascrivibili alle grandi operazioni immobiliari speculative degli anni 60 e 70, quelle descritte da Francesco Rosi nel celeberrimo film “Le mani sulla città” per intenderci. Corviale, Quarto Oggiaro, Zen, Enziteto, Scampia sono tutti tentativi, seppur ormai superati, di quella che nei manuali di urbanistica si chiama ERS (Edilizia Residenziale Sociale) e che, siccome in inglese tutto sembra più cool (visto?) le facoltà di architettura e le stesse archistar chiamano social housing. Cosa è cambiato dai tempi dell’INA CASA? Gli studiosi di questa materia affermano che l’approccio all’edilizia sociale è cambiato, forte degli errori del passato, e che dunque oggi le operazioni di housing sociale si differenziano dalla tradizionale edilizia residenziale sociale, mirata ad ubicare quante più abitazioni possibili per le persone a reddito basso nel minore spazio possibile, secondo il modello “alveare” dell’hunité d’habitation di Le Corbusier, per l’attenzione ai materiali, al funzionamento energetico dell’edificio e poi alla progettazione degli spazi per la socialità, alla coesione con la città, in una parola a tutti gli aspetti sociali del progetto. E fin qui tutto normale, d’altronde siamo nell’era dei social network. Ma siamo anche nell’era dell’open source che in italiano più o meno sarebbe “sorgente libera a cui tutti possono attingere gratuitamente”. Ed è qui che entra in gioco Alejandro Aravena, architetto cileno, premio Pritzker 2016 appena ritirato, prossimo curatore della Biennale di architettura di Venezia, che ha elaborato un progetto sperimentale di housing sociale. La sfida era costruire una casa per una intera famiglia con risorse economiche limitatissime, circa 7.500 dollari: l’approccio di Aravena è indubbiamente intelligente. Se si hanno pochi soldi e non si può costruire una intera casa occorre scegliere cosa realizzare; ovviamente la scelta ricadrà sugli elementi strutturali della casa: pilastri, travi, scale, muri. Il resto della casa è lasciata alla libera iniziativa degli occupanti: questo modello si chiama incremental house e Aravena insieme ai suoi collaboratori ha elaborato 4 prototipi che ha messo a disposizione sul proprio sito, qui. I progetti sono ben studiati, di alto livello, tanto da consentire all’architetto, appena 48enne, di diventare il più giovane vincitore del premio Pritzker con la seguente entusiastica motivazione “Alejandro Aravena fa da guida ad una nuova generazione di architetti, che ha una comprensione olistica dell’ambiente costruito e ha chiaramente dimostrato la propria capacità di connettere responsabilità sociale, istanze economiche, progetto dell’ambiente abitativo e design urbano. In pochi sono riusciti nell’intento di fare dell’architettura un’impresa brillante, confrontandosi allo stesso tempo con sfide economiche e sociali“. I progetti di Aravena sono, insomma, allo stesso tempo funzionali, semplici da realizzare, economici ed anche ben integrati con le città (cilene, naturalmente). Ed è qui che nasce la mia perplessità. Nell’era di Wikipedia, in cui tutti possono accedere ai contenuti di una sconfinata web enciclopedia, alla cui redazione ogni utente può contribuire scrivendo la propria definizione, il proprio lemma, anche i progetti di architettura possono essere condivisi e modificati da tutti coloro che intenderanno realizzarli, con modalità e tecniche diverse. Ma come può un progetto di architettura diventare open source? Questa è La domanda. La risposta è complessa e più che in una risposta assomiglia ad una caterva di perplessità. La prima: è giusto prescindere dal contesto territoriale in un progetto di housing sociale? Perché è questo che si fa, in concreto, scaricando i disegni di Aravena ed utilizzandoli per costruire quartieri: tutti possono farlo, in qualsiasi parte del mondo, ma il disegno, a meno di modifiche interne, non varierà la sua forma sostanziale. Ergo verrebbe meno un principio fondamentale insegnato in qualsiasi facoltà di architettura, italiana, ma penso anche europea. Il legame con il territorio, con il tipo edilizio di riferimento, con i materiali, talvolta, è fondamentale e francamente i progetti di Aravena sembrano anche averlo un legame con il proprio contesto di appartenenza, il Cile, per l’appunto. Oltretutto abbiamo appena detto che l’edilizia residenziale sociale figlia degli anni 60 è fallita anche perché avulsa dal contesto territoriale in cui era inserita, perché lanciata come un asteroide in un’area vuota, che da sola non è stata in grado di connotare…mi sembra un errore vecchio travestito da novità e soprattutto uno spreco di tempo, dopo infiniti studi sulla sociologia urbana che ci hanno portato a concludere che in passato considerare solo gli elementi costruttivi come elementi essenziali di un agglomerato complesso fosse un gigantesco errore. La seconda domanda riguarda la qualità costruttiva: siamo davvero sicuri che dei progetti open source possano produrre architettura di qualità? Guardando queste immagini a me non sembra.
Studio Elemental – Housing sociale a Sold Pedro Prado, Iquique, Tarapacá, Chile
Insomma qui si arriva alla domanda più grande di tutte.
Siamo davvero sicuri che l’architettura si possa fare senza architetti? Abbiamo davvero intrapreso questa professione dopo anni di studi per lasciare i nostri progetti in balia di chi non saprà condurli e dar loro quella dignità che è aspirazione di ogni composizione, a partire dalla prima casa unifamiliare disegnata all’inizio del corso di studi, fino all’ultima opera dell’architetto esperto. L’architettura moderna ha una vocazione sociale diceva Gio Ponti, ma con tutta probabilità non intendeva che fosse cosa buona e giusta devolvere i propri progetti per la realizzazione di interi quartieri standardizzati. L’esperienza di INA CASA o dei quartieri UNRRA CASAS è, a questo punto, infinitamente più coerente e contiene un’attenzione al dettaglio propria di architetti esperti come Carlo Aymonino, Giancarlo De Carlo, Ludovico Quaroni, Adalberto Libera o Luigi Piccinato, oltre che l’attento studio delle funzioni abitative necessarie ai futuri occupanti, dei tipi originari del luogo, dei materiali. Certo, non tutte le esperienze sono state di successo, ma hanno, almeno all’apparenza, una ricchezza di contenuti notevole. è sicuramente vero che la partecipazione al progetto di architettura, che già all’epoca di De Carlo e Olivetti esisteva e veniva praticata, può essere un valido strumento per comprendere bisogni e modalità attuative migliori che rispondano a problematiche abitative concrete, ma un buono strumento non deve trasformarsi nella finalità ultima. Dice Alejandro Aravena in un’intervista recente: «Quello che proviamo a fare, chiedendo alle persone di partecipare è di rappresentare la questione, non quale sia la risposta. Non c’è niente di peggio che una risposta giusta alla domanda sbagliata». Questo è senz’altro corretto, quello che Aravena dimentica di dire è probabilmente che il compito di fornire soluzioni e risposte è dell’architetto e non potrà che essere così affinchè le risposte possano essere adeguate alle domande e le soluzioni ai problemi.
Il quartiere Spine Bianche di Matera – Carlo Aymonino|Giancarlo De Carlo (Foto Credits_C.S.&M.R. 2012)